Gli statunitensi che possiedono una qualche discendenza italiana nella loro famiglia sono stimati in circa 25-30 milioni di persone. Di queste, gli iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE) – persone aventi quindi cittadinanza italiana o doppia cittadinanza (italiana e statunitense) – sono oltre 200.000, per l’esattezza 223.429 stando all’ultima rilevazione alla fine dell’anno 2012[3].
Poiché le emigrazioni dall’Italia verso gli Stati Uniti cominciarono prima dell’unità italiana molti degli emigrati italiani si riunirono – e tuttora si riuniscono – principalmente su base regionale, piuttosto che raggrupparsi su motivazione nazionale. Oggi sono molti gli studi dedicati anche alla storia distinta dei vari gruppi regionali. Si può parlare così ad esempio di siculoamericani (Sicilian American) per indicare gli statunitensi d’origini siciliane, o di liguriamericani a indicare quelli di origine ligure, ecc.
Tra questi italiani ci sono biografie che confermano il “sogno americano” in ogni settore. Quindi milioni di nostri connazionali, nel corso dei decenni, hanno varcato i confini per cercare una migliore opportunità lavorativa. Negli anni più recenti, se erano imprenditori in Italia, hanno delocalizzato la loro impresa all’estero. Ora non pochi italiani, soprattutto giovani, vanno all’estero a fare impresa.
Ai primi posti tra i Paesi privilegiati da imprenditori italiani che vanno all’estero, troviamo Singapore, ormai saldamente al primo posto da molti anni, seguita da Hong Kong, Nuova Zelanda, Usa e Danimarca. Nuovo ingresso la Malesia. Tra i primi dieci anche la Gran Bretagna.
Quindi moltissime anche le nuove startup fatte da italiani all’estero, di seconda e terza generazione, e di nuovi italiani che emigrano verso opportunità che, ahimè, il nostro Paese purtroppo non offre.
Dunque emigrazione ancora in atto, per non parlare di grandi imprese italiane che hanno preferito delocalizzare buona parte delle loro attività all’estero.
Sono inoltre numerosi gli “italiani americani” o gli “americani italiani” presenti nel palinsesto cinematografico, per eccellenza, di Hollywood; quella italoamericana si può definire come una vera e propria corrente culturale.
Negli ultimi decenni la grande tradizione dei registi italoamericani continua con George Gallo, Michael Corrente, Quentin Tarantino, il regista che ha “rivoluzionato” il modo di fare film a Hollywood, Greg Mottola, D. J. Caruso, Frank Coraci e Sofia Coppola. Martin Scorsese vince l’Oscar al miglior regista nel 2007 con The Departed – Il bene e il male (The Departed), e raccoglie ben altre cinque nomination: nel 1991 con Quei bravi ragazzi (Goodfellas), nel 2003 con Gangs of New York, nel 2005 con The Aviator, nel 2012 con Hugo Cabret (Hugo), e nel 2014 con The Wolf of Wall Street. Altre nomination vanno ancora nel 1991 a Francis Ford Coppola per la terza e ultima parte della sua trilogia Il padrino – Parte III (The Godfather: Part III); a Quentin Tarantino nel 1995 con Pulp Fiction e nel 2010 con Bastardi senza gloria (InglouriousBastards); e a Sofia Coppola nel 2004 con Lost in Translation – L’amore tradotto (Lost in Translation). Altrettanto lunga è la lista degli attori, a partire da quel Valentino, primo sex symbol, che contribuì a far nascere l’industria degli studios. Al Pacino (Alfredo James Pacino) e Robert De Niro (figlio del pittore Robert De Niro Senior); Leonardo Di Caprio (sangue italiano di quarta generazione) e Nicolas Cage (in realtà, Coppola, il cognome del padre); Danny Devito; John Travolta e Lou Ferrigno, il bodybuilder che interpretò la parte di Hulk nel primo film tratto dalla serie di fumetti della Marvel, sono solo una parte della lunga schiera i attori con origini italiane.
A questo punto che ben venga la neo-costituita Associazione Internazionale Italiani all’Estero “Radici”, in presentazione il 13 settembre p.v. alla CCIAA di Bari, presieduta dall’avv. Mario Pavone, e di cui mi pregio di essere delegato alle aziende, e che ha tra i fini statutari principalmente quello di promuovere l’immagine delle Regioni del Sud Italia presso i nostri connazionali emigrati nei vari Paesi del mondo, favorendone il “turismo di ritorno” nei paesi d’origine attraverso la conoscenza del territorio, dei prodotti dell’agroalimentare, dell’ospitalità rurale e delle tradizioni culturali e religiose.
E’ vero che si parla di globalizzazione, ma è altrettanto vero che le tradizioni italiche non possono e non devono essere cancellate, ma vanno continuamente ricercate, per ritrovare dentro se stessi, di essere italiani, altrimenti si perderebbe quell’ossatura che regge il “made italian abroad” (fatto italiano all’estero).
Essere imprenditori italiani all’estero, senza dimenticare l’orgoglio di essere italiani, non si può dimenticare.
Arturo Di Mascio