Ribassi per le telefonate all’estero

L’impegno per il trade internazionale è uno degli argomenti di punta per l’aim di questo sito. Il commercio sta divenendo sempre più immateriale; i servizi rubano sempre più la scena alle merci. Ecco un articolo di Luigi dell’Olio su Yahoo Finanza.

L’Europa diventa finalmente un mercato unico, almeno per quel che concerne la telefonia. Infatti il Parlamento europeo ha approvato l’abolizione delle tariffe roaming per l’uso dei telefoni cellulari all’estero a partire da giungo 2017. Quindi, da quel momento in poi le chiamate nell’area avranno lo stesso costo di quelle nazionali. L’intesa varrà non solo nei 28 Paesi membri, ma anche in Svizzera, Norvegia e Islanda.

Un percorso a tappe
I costi del roaming inizieranno a scendere già dal prossimo 30 aprile, con il ricarico massimo che sarà di 5 centesimi al minuto per le chiamate, 2 centesimi per i messaggi e 5 centesimi a megabyte per i dati (contro le tariffe attuali che hanno un tetto rispettivamente a 6, 19 e 20 centesimi). Per le chiamate ricevute, invece il ricarico massimo sarà la media ponderata dei tassi massimi di terminazione mobile in tutta l’Ue, che sarà presentato dalla Commissione entro la fine di quest’anno. Tirando le somme, negli ultimi otto anni il costo delle telefonate in Europa è stato abbattuto nell’ordine del 90%.

L’eccezione
Tutti gli operatori sono tenuti a rispettare queste regole nei confronti dei clienti in viaggio, a meno che non ravvisino eventuali abusi da parte degli utenti, ad esempio un utilizzo permanente fuori dai confini nazionali. In quel caso potranno utilizzare la cosiddetta clausola di “uso equo”, addebitando una maggiorazione rispetto alle tariffe standard.

La neutralità della Rete
Nella stessa occasione il Parlamento europeo ha ribadito il principio di neutralità della Rete. Questo significa che non potranno essere predisposti blocchi o limitazioni ai contenuti da parte dei fornitori dei servizi. Inoltre è stata ribadita la necessità di un ruolo di controllo da parte delle autorità nazionali sull’effettivo esercizio della net neutrality. Nel-2017-potremo-dire-addio-al-roaming-in-Europa-640x241

Fisco e tasse nella Confederazione Elvetica

Altresì detta Svizzera. Ancora una volta riportiamo un’annosa questione individuata da Wall Street Italia. L’articolo è di Daniele Chicca.

da tvsvizzera.it

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GINEVRA (WSI) – Tra i tanti effetti paradossali dei tassi sotto zero questo è sicuramente uno dei più assurdi: in un cantone della Svizzera le autorità del fisco hanno esortato i contribuenti a effettuare pagamenti il più tardi possibile.

Zug, un ricco cantone vicino a Zurigo, ha annunciato che non farà più sconti per i pagamenti delle tasse e bollette effettuati in anticipo. Più ha soldi in bilancio, infatti, più è probabile che il cantone finirà per pagare prezzi più alti come conseguenza dei tassi di interesse negativi imposti dalle banche svizzere. La misura permetterà alle autorità cantonali di risparmiare circa 2,5 milioni di dollari l’anno.

L’esempio di Zug potrebbe essere presto seguito da altri cantoni. La richiesta davvero insolita di Zug è l’ultimo di una serie di inaspettati effetti provocati dalle misure straordinarie intraprese dalla Swiss National Bank per indebolire il franco troppo forte, che sta penalizzando i gruppi esportatori. Gran parte degli affari commerciali delle aziende di orologi, gioielli e altri beni di lusso dell’economia svizzera sono stretti con l’Europa.

Nell’ambito di una guerra valutaria con la vicina Europa, un anno fa la banca nazionale elvetica (SNB), per rispondere ai tentativi di svalutazione dell’euro della Banca centrale europea, ha cercato a sua volta di ridurre il valore del franco eliminando il peg con l’euro.

Dopo che la SNB ha imposto tassi di interesse negativi, le banche commerciali hanno pian piano trasferito ai clienti più benestanti. Un contesto di tassi negativi comporta che i correntisti e chi ha un deposito in banca debbano sborsare denaro per poter parcheggiare i propri soldi presso le banche.

“Tenuto conto della lunga durata della fase di interessi bassi o negativi che devono essere pagati in Svizzera, il cantone non ha alcun incentivo a motivare i contribuenti a pagare in anticipo”, hanno dichiarato le autorità di Zug.

Al contrario, il cantone ha più di un motivo per ricevere i soldi il più tardi possibile, in modo da pagare interessi meno negativi di quelli attuali. Di solito le agenzie delle entrate sono molto zelanti nel chiedere i pagamenti ai contribuenti, ma gli interessi fiscali da sborsare per ripianare i propri debiti sono stati ridotti allo zero a Zug. I contribuenti debitori rischiano comunque di incorrere in multe e giudizi negativi in termini di affidabilità creditizia.

Il cantone di Zug non deve ancora pagare interessi negativi, ma gli effetti dei tassi sotto zero sono ancora difficili da prevedere e pertanto le autorità preferiscono mettere le mani avanti in materia di fisco.

Fonte: Financial Times

Crollo del barile

Si riaprono finestre su vecchi presagi. Ancora una volta nel mirino c’è l’export di petrolio da parte di compagnie americane. Il Sole 24 Ore ha dedicato un articolo in merito. Firmato Sissi Bellomo.

È iniziato il conto alla rovescia verso il debutto degli Stati Uniti come esportatori di Gas naturale liquefatto (Gnl). La nave metaniera Energy Atlantic dovrebbe attraccare oggi al molo di Sabine Pass Lng, l’impianto di Cheniere Energy al confine tra Louisiana e Texas, che è arrivato per primo al traguardo di vendere all’estero lo shale gas americano. La destinazione non è ancora nota, ma non è escluso che possa essere in Europa. Tra i primi a siglare un contratto di fornitura con Cheniere, di durata ventennale, era stato infatti Bg Group, gruppo britannico ora vicino alla fusione con Royal Dutch Shell.

Proprio nel Vecchio continente – per ironia della sorte in Norvegia, Paese forte produttore di gas – nelle prossime settimane arriverà certamente dagli Usa un carico di etano: feedstock petrolchimico alternativo alla nafta (che invece è ricavata dal petrolio), destinato allo stabilimento Ineos di Rafnes.

Una decina di anni fa nessuno avrebbe immaginato che gli Usa potessero esportare gas. Gli impianti di produzione di Gnl oggi in costruzione erano anzi stati progettati in origine come rigassificatori, nella convinzione che gli americani avrebbero aumentato la dipendenza energetica dall’estero. Con la rivoluzione dello shale è cambiato tutto: dal 2006 la produzione interna di gas ha ricominciato a crescere, raggiungendo livelli record a partire dal 2011.

La corsa ad esportare Gnl ha spinto a presentare richieste di autorizzazione per 54 impianti di liquefazione. Oltre a Sabine Pass, tuttavia, solo altri quattro sono in dirittura di arrivo. Per tutti gli altri il crollo dei prezzi di petrolio e gas ha resto il futuro quanto mai incerto. La stessa Cheniere – che in 19 anni di attività non ha mai fatto profitti – oggi come oggi rischia di esportare in perdita. Ma per fermare tutto ormai è troppo tardi .

da dailytech.org

da dailytech.org

La sfida di Fiat Chrysler Autor

Riportiamo di seguito una notizia d’agenzia (ANSA), ricordando preventivamente che Marchionne ha promesso di curare personalmente i piani industriale e finanziario del prossimo trimestre in FCA.

Il consolidamento nell’industria dell’auto è “inevitabile”. Ma Fca per ora si sfila. La priorità è il piano al 2018 e “avere un’enfasi maniacale sul raggiungimento dei numeri, per poter dare sicurezza alla società anche quando io non ci sarò”. E per poter “togliersi quelli che Renzi chiama i gufi”. Sergio Marchionne al Salone dell’Auto di Detroit conferma i target finanziari per il gruppo, più vicini dopo l'”eccezionale” 2015 e raggiungibili anche con volumi di vendita inferiori alle attese, e afferma: “Non voglio lasciare una cucina che non può essere usata dal mio successore”.
Una ‘cucina in ordine’ ha un debito azzerato e un utile di 5 miliardi di euro, come previsto nel piano industriale.

Su chi lo succederà alla guida, Marchionne vede un “numero” di possibili successori. E scherza su un suo possibile futuro da giornalista. Accanto a John Elkann, si lascia andare all’idea di un quotidiano il ‘John and Sergio Daily’. Un giornale “cartaceo” precisa Elkann.

Una ‘cucina in ordine’ ha un debito azzerato e un utile di 5 miliardi di euro, come previsto nel piano industriale.

da gqitalia.it

da gqitalia.it

Emotient: Apple acquista ancora

Apple ha oggi acquistato Emotient, una startup che si occupa di intelligenza artificiale. La notizia diffusa dal Wall Street Journal ed è stata confermata da Cupertino al quotidiano. Tuttavia non sono stati diffusi i dettagli circa l’accordo e il denaro messo sul piatto da Apple. Emotient è una società che sviluppa sistemi di riconoscimento facciale in grado di leggere le emozioni sul volto delle persone. Quindi in futuro gli iPhone e gli altri prodotti dell’azienda californiana saranno in grado di leggere le emozioni.

Non è chiaro quale sia il motivo che ha spinto il gruppo guidato da Tim Cook ad acquistare la startup, che offre servizi soprattutto ad agenzie pubblicitarie per riuscire a capire quali sono le reazioni delle persone alle inserzioni che leggono o guardano. Inoltre molti medici e ricercatori hanno usato il software per cercare di capire quali sono i segni di dolore dei loro pazienti.

L’azienda americana, recentemente, aveva fatto sapere di essere avere chiesto e ottenuto il brevetto per un sistema in grado di acquisire, analizzare e catalogare 100 mila espressioni al giorno, al fine di affinare sempre più il suo metodo. Emotient era riuscita a raccogliere 8 milioni di dollari di finanziamento per continuare a implementare la tecnologia; recentemente però aveva rinunciato a portare a termine un secondo giro di finanziamento ritenendo che i termini dello stesso non fossero favorevoli.

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Emotient ha sede a San Diego, California, e in precedenza ha raccolto 8 milioni di dollari in finanziamenti, anche da Intel. Questa settimana il gruppo aveva rivisto il suo sito togliendo i dettagli dei servizi offerti alle aziende.

Cina: un’economia di mercato mancata

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da neurope.eu

L’unione europea che lotta contro la concessione alla Cina dello status di economia di mercato trova forte appoggio dagli USA. Secondo fonti del governo statunitense interrogate dal Financial Times, infatti, dare a Pechino questo status potrebbe porre a rischio gli sforzi per riuscire ad evitare che imprese cinesi invadano i mercati di UE e USA con prodotti illecitamente a buon mercato. L’amministrazione Obama sostiene che la concessione possa disarmare unilateralmente le barriere commerciali europee in prospettiva anti-cinese.

Ottenere la qualità di economia di mercato alla Word trade organization è uno degli obiettivi cinesi. Tra i bonus ci sarebbero l’aumento di difficoltà di Europa e America a applicare imposte antidumping su imprese made in China che abbassano scorrettamente i prezzi a imprese e consumatori. La CE dovrebbe decidersi su questo argomento e sarebbe orientata verso l’approvazione. Gli stati europei sono divisi sull’esito. Cameron e Merkel, ognuno per le due nazioni le cui imprese hanno investito molto in Cina, sono favorevoli. Altri paesi, tra cui l’Italia, non lo sono perché sospettano che questa decisione potrebbe rappresentare la fine per le proprie industrie.

Accesa discussione sull’accordo d’ingresso della Cina nella Wto nel 2001, con la Cina che si batte affinché questo comporti automaticamente l’acquisizione di status di economia di mercato a fine anno. Quindici anni fa la UE decise che entro i termini del 2016 avrebbe potuto valutare di cedere alla Cina questa qualifica. 
Stando ai regolamenti della Word trade organization, il mancato status di economia di mercato della Cina concede all’Europa e agli Stati Uniti un più grande margine di manovra sui prezzi corretti di produzione per le aziende cinesi nelle indagini anti-dumping. È il caso del campo dell’energia solare, delle calzature e delle piastrelle.

 

Nuova crisi dei subprime?

Un’altra attenta analisi dal sito di Wall Street Italia: http://www.wallstreetitalia.com/soros-contagio-cina-mi-ricorda-crisi-del-2008/

NEW YORK (WSI) – Il pericolo di contagio scatenato dalla crisi valutaria cinese ricorda da vicino quello della crisi dei mutui subprime del 2008. A pensarlo è il guru degli investimenti George Soros, noto speculatore nei mercati valutari, che con le mosse del suo fondo Quantum ormai più di 23 anni fa ha contribuito a portare la lira e l’economia italiana sull’orlo del precipizio.

Gli investitori devono stare molto attenti, i mercati mondiali stanno attraversando un momento di crisi pericoloso, ha avvertito il miliardario investitore durante un forum economico in Sri Lanka.

Dopo anni di grandi incrementi del Pil, la Cina non riesce a trovare un nuovo modello di crescita sostenibile e le sue svalutazioni massicce dello yuan stanno contagiando il resto del mondo, ha sottolineato Soros dalla capitale dello Sri Lanka, Colombo.

Un rialzo del costo del denaro negli Stati Uniti con il conseguente rafforzamento del dollaro e stretta creditizia metterà da quest’anno la parola fine all’era dei tassi zero. Questo, secondo Soros e non solo lui, rappresenta una sfida insormontabile per le economie in via di Sviluppo. Il rischio è che si scateni una crisi globale come quella di otto anni fa.

La Cina ha un grave problema, non riesce ad adattarsi alla nuova realtà. “Possiamo dire con una certa sicurezza che si tratta di una crisi. Quando si dà un’occhiata ai mercati finanziari, si notano serie difficoltà, che mi ricordano la crisi che abbiamo avuto nel 2008“.

Dopo che le autorità di Pechino hanno effettuato una nuova svalutazione dello yuan, dimostrando di aver completamente perso la Trebisonda, i mercati cinesi – che normalmente aprono alle 9.30 locali e chiudono alle 15 con una pausa di un’ora e mezzo – hanno chiuso dopo soli 29 minuti di scambi. Già dopo appena 870 secondi le contrattazioni sono state sospese. La Borsa di Shanghai ha accusato un calo del 7,3% e l’indice Shenzen dell’8,3%.

Trento, Festival dell'Economia 2012Se la Cina non troverà un modo per risollevarsi e evitare un ‘hard landing‘ della seconda economia al mondo, il futuro per le economie mondiali, le cui stime di crescita sono state di recente riviste al ribasso dalla Banca Mondale per i prossimi due anni, si profila a tinte decisamente fosche.

Indici e terrore

Stamane le televisioni – senza distinzione di quartiere – indicavano il connubio delle nette perdite di tutti gli indici più importanti con l’emergere della crisi diplomatica (e umanitaria) tra il cuore del mondo sciita e quello sunnita. Arabia Saudita e Iran. Ecco un articolo di Daniele Chicca da Wall Street Italia:

Emad Hajjaj cartoon

Emad Hajjaj cartoon

MILANO (WSI) – Dopo un’avanzata del +13% nel 2015, la Borsa di Milano non riesce ad allungare i rialzi e resistere all’ondata ribassista proveniente dall’Asia. Il Ftse MIB ha chiuso in calo del 3,2% a 20.733,81 punti. L’azionario cinese ha visto una chiusura anticipata per via di una grave perdita del 7%. In seguito l’azionario giapponese ha archiviato la prima sessione dell’anno in calo del 3,1%.

Dietro al crollo delle borse asiatiche c’è il crescente timore di un rallentamento della seconda economia al mondo. L’indice Caixin/Markit Pmi del mese di dicembre è sceso a 48,2 punti dai 48,6 di novembre. Si tratta del quinto mese di flessione consecutivo per l’attività manifatturiera in Cina. Inoltre gli investitori sono preoccupati per la prossima abolizione del divieto di vendite allo scoperto sui mercati e di cessione di partecipazioni azionarie per i grandi azionisti.

A Piazza Affari osservate speciali sono sempre le banche e il titolo Ferrari, all’esordio nell’indice italiano. Secondo quanto mostrato da un tender inviato alle società del credito d’Europa, l’autorità di regolamentazione dell’Unione Europea ha da parte il budget necessario per salvare dal fallimento dieci banche al massimo nei prossimi quattro anni.

Tra gli altri mercati petrolio in rialzo anche del 3% a un certo punto, sulla scia delle montanti tensioni geopolitiche in Medioriente, dove si sono interrotte le relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran dopo che i primi hanno giustiziato un imam sciita accusato di terrorismo.

2015: anno peggiore per la finanza?

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da procurementprofessionals.org

Non si sospettava un anno così ricco di crisi sino alle analisi degli economisti. Crisi che hanno costretto la UE a piegarsi davanti alle emergenze dell’attualità. Non tutte queste sono provenienti dal mondo finanziario. Ma andiamo per ordine.

L’anno si è inaugurato con la crisi greca. Mai un paese membro dell’area euro è stato così vicino al’uscita dall’area. Grexit, in questo caso. Il popolo ellenico si è espresso tramite referendum in merito al piano della troika. Piano bocciato dai votanti. Il patto di Tsipras ha condotto all’umiliazione per il popolo greco, nonostante l’assenza di migliori alternative. Debiti alle stelle per questa popolazione.

È andata solo leggermente meglio nel caso delle trattative tra UE e UK. Con l’obbiettivo di trovare una serie di nuove concessioni per il sistema inglese in vista del referendum del 2017 – referendum dall’esito sempre più scontato – con il quale il Regno Unito sceglierà se rimanere nell’Unione Europea o meno. La cosiddetta Brexit. È proprio la qualità e la quantità delle concessioni che Cameron riuscirà a strappare a Bruxelles che la determinerà. Si possono solo immaginare quali saranno le ripercussioni sull’economia continentale.

Vicino oriente e area slava non esitano ad aggiungere la cronaca agli accordi economici internazionali. Intanto, i flussi migratori possono avere ripercussioni non solo per l’immediato impatto sulle risorse delle comunità europee locali ma anche sulle leadership nazionali. Angela Merkel gioca la propria sulla capacità di gestire gli afflussi di migranti. E problema non meno grave è quello rappresentato dallo Stato Islamico di Iraq e Siria (ISIS), che causa parte di questi flussi. La spesa militare in Siria comincia ad ingrossare il peso del proprio capitolo nel bilancio dei paesi della comunità. Senza contare per quello a cui stamane, ad Agorà, inneggiava Salvini. Quello per la pubblica sicurezza.

Le più recenti ripercussioni sul trade internazionale secondo il Sole 24 ore: «La nuova correzione del petrolio fiacca i tentativi di rilancio dei listini europei, che dimostrano di aver smarrito la bussola in questo finale d’anno e chiudono in deciso rosso la prima seduta settimanale. Dopo una mattinata a tratti vivace sui listini, le vendite sugli energetici, innescate dal -1% del Wti a 35,68 dollari al barile e dal -1,5% del Brent a 36,3 dollari, e la perdita di forza di Wall Street (piatto il Dow Jones) hanno esaurito i guadagni.»

Options Borsa Affari e Wall Street

Focus sulla pubblicazione del dato relativo al Pil Usa relativo al terzo trimestre del 2015. L’indicatore è stato rivisto al ribasso dal +2,1% inizialmente reso noto al +2%, comunque meglio delle attese (+1,9%). Le spese per consumi rimangono solide, ma rallentano gli investimenti delle aziende della Corporate Usa, costrette a fare i conti con l’apprezzamento del dollaro e dunque con l’indebolimento delle esportazioni. La buona notizia è che la Federal Reserve dovrà astenersi dal rialzare i tassi di interesse Usa a un ritmo troppo rapido, visto che gli Usa continuano a crescere al ritmo più lento dai tempi della Grande Depressione. Wall Street positiva, ma rimane debole.

Segnale preoccupante dal mercato delle opzioni. Per la prima volta in assoluto, i trader dello S&P 100 detengono più di 3 contratti di opzioni put per ogni call posseduta. Ed è ancora una volta il mercato immobiliare degli Stati Uniti a far preoccupare, con le vendite di case esistenti che hanno sofferto un crollo -10,5%, che decreta il peggior novembre di sempre per il settore. Fantasmi non antichi.

L’Europa guarda anche al caos Spagna, dopo le elezioni storiche del weekend che rendono difficile al momento la formazione in tempi brevi di un governo di coalizione. La Banca di Spagna rimane tuttavia ottimista sull’economia iberica e stima un aumento del Pil, nel quarto trimestre, a un tasso dello 0,8%, rivedendo al rialzo l’outlook per l’intero 2015 dal +3,1% al +3,2%. Per il 2016 prevista una crescita del 2,8%, superiore al +2,7% delle previsioni precedenti.
Sul valutario, l’euro si rafforza oltre quota $1,09, attorno a $1,0970, mentre il dollaro cede sullo yen sotto la soglia di JPY 121.
Focus sull’alert che arriva dal FMI: oro in calo sotto $1.080.

Le quotazioni del petrolio rimangono osservate speciali, dopo il crollo del Brent ai minimi degli ultimi 11 anni. Ma c’è qualcuno che ritiene che i prezzi siano ormai vicini a toccare il fondo. Così Kathy Lien, managing director per la divisione di strategia sul mercato dei cambi presso BK Asset Management.
“La prospettiva di un dollaro forte, di una crescita globale che rimarrà debole e di prezzi delle commodities in calo nella prima metà dell’anno (2016) implica che gli utili aziendali e l’azionario potrebbero soffrire. Prevediamo una correzione dell’azionario all’inizio del 2016. Ricapitolando: “la forza del dollaro, la debolezza della domanda a livello globale e l’elevato livello delle scorte hanno provocato il collasso dei prezzi petroliferi quest’anno. Tuttavia, sebbene i prezzi potrebbero scendere ancora nel breve termine, sulla scia della decisione Usa di porre fine al divieto – durato 40 anni – sulle esportazioni di petrolio e anche a causa dell’eliminazione delle sanzioni contro l’Iran, il fondo sarà toccato quando il dollaro testerà il suo massimo”. Dunque “i prezzi del petrolio potranno scendere anche sotto $30 al barile, ma non intravediamo ulteriori ribassi ed entro la fine dell’anno riteniamo che le quotazioni potrebbero riavvicinarsi a $40 al barile”.

Mercati asiatici prevalentemente positivi. Stona la performance della borsa di Tokyo, con l’indice Nikkei in calo -0,16%.