Molto spesso, dai non addetti si parla di commercio internazionale come di una cosa buona solo però quando si compra merce estera a buon prezzo e si vende merce nostrana guadagnando molto. Ma esistono strategie che non vanno in questa direzione, per giusti motivi.
Nel 1776 l’economista scozzese Adam Smith sostenne nel suo libro La ricchezza delle nazioni che la specializzazione porta ad accrescere la produzione. Secondo Smith, per poter soddisfare una domanda crescente di merci le risorse scarse di una nazione devono essere distribuite in modo efficiente nei vari settori produttivi, con preferenza per quei beni che un paese può produrre con minori costi rispetto ai suoi partner commerciali. Ciò consente di esportarne una parte e di importare i beni che i partner commerciali producono a minor costo. Sull’opera di Smith si fonda la scuola economica classica.
Mezzo secolo dopo, l’economista inglese David Ricardo modificò la tesi di Smith introducendo la teoria del “vantaggio di costo relativo o comparato”, ancor oggi accettata da quasi tutti gli economisti. Per gli economisti che precedettero Ricardo, lo scambio diveniva conveniente soltanto nel caso di vantaggi assoluti di costo. Secondo la teoria del vantaggio relativo o comparato, invece, al paese A conviene importare una merce dal paese B – ad esempio, stoffa – a un prezzo maggiore di quello che gli costerebbe produrla al proprio interno, se nella produzione di una seconda merce – ad esempio, vino – il paese A ha, sul paese B, un vantaggio di costo ancora maggiore di quello che ha nella produzione della stoffa; infatti, in questo caso al paese A conviene produrre una minor quantità di stoffa e una maggior quantità di vino e scambiare vino contro stoffa importata dal paese B.
Il risultato finale sarà che il paese A, impegnando le stesse risorse, si troverà con una quantità di stoffa maggiore di quella che avrebbe ottenuto producendola al proprio interno e a un costo minore del prezzo che ha pagato per importarla dal paese B. In breve: un paese che ha un vantaggio di costo in entrambi i prodotti opera “comparando i propri vantaggi” (da qui il nome della teoria) e specializzandosi nella produzione e nell’esportazione di quello in cui il suo vantaggio di costo è maggiore. Se ogni regione si specializzasse nella produzione di beni per i quali ha un vantaggio relativo, verrebbero prodotti dunque più beni e aumenterebbe la ricchezza sia del paese compratore sia del venditore.
Oltre a questo vantaggio fondamentale, il commercio internazionale produce ulteriori benefici economici. Accresce e rende più efficiente la produzione mondiale, consentendo alle popolazioni dei vari paesi di consumare quantità maggiori e più diversificate di prodotti: un paese che possiede limitate risorse naturali è così in grado di produrre e consumare più di quanto potrebbe fare altrimenti. Il commercio internazionale amplia inoltre il numero dei mercati potenziali nei quali un paese può vendere i propri prodotti. L’aumento della domanda internazionale per i prodotti si traduce in un incremento della produzione e dell’uso di materie prime e del lavoro, che a sua volta conduce alla crescita dell’occupazione nazionale. La concorrenza può inoltre spingere le imprese ad accrescere la propria efficienza attraverso la modernizzazione e l’innovazione.
L’importanza del commercio internazionale varia da un paese all’altro: alcuni esportano solamente per espandere il mercato interno o per aiutare economicamente i settori depressi della propria economia, mentre altri dipendono dal commercio per una larga parte del reddito nazionale e per ottenere prodotti destinati al consumo interno. In anni recenti il commercio internazionale è stato anche visto come un mezzo di promozione della crescita economica di una nazione; nei paesi in via di sviluppo e nelle organizzazioni internazionali è stato infatti attribuito un peso crescente agli scambi con l’estero.
Arturo Di Mascio