da left.it
Tra dimissioni a grappolo e redditi di primi ministri, cerco si spiegare bene quale sia la vicenda dei Panama Papers ai miei lettori – che, noto, sono in lieve aumento.
Prendo un paio di righe dalle pagine di Wall Street Italia: Con la locuzione Panama Papers ci si riferisce a un corposo fascicolo di oltre 11 milioni di documenti che contengono informazioni dettagliate su oltre 200 mila società offshore e relativi organigramma. Il nome di questa inchiesta è dovuto allo studio legale Mossack Fonseca, che ha sede a Panama per l’appunto. Vedono coinvolti leader mondiali con parenti e collaboratori oltre a vip e top managers.
L’inizio della vicenda risale agli anni ’70 ma l’indagine è partita nell’Agosto 2015, venne consegnato al Süddeutsche Zeitung, uno dei più importanti quotidiani tedeschi, e poi al Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi (ICIJ nella sua sigla inglese).
Si tratta di evasione fiscale. Più o meno quanto ho scritto nei giorni passati relativamente a Google ed Apple, per intenderci. Soldi che avrebbero potuto rimanere qui e che invece vanno … lì. Non necessariamente a Panama. Tutto questo perché, chiaramente, ci sono paesi in cui la pressione fiscale sul patrimonio è praticamente nulla. O minima.
Ci sono state diverse manovre in merito a questa posizione. Una, probabilmente una delle più spregevoli, è stata quella caldeggiata da Hillary Clinton.
Noi stessi non siamo esenti da questo malanno. Sono stati resi pubblici i nomi di almeno un centinaio di nostri concittadini. Ma nessun capo è stato risparmiato.
Ieri il premier inglese Cameron ha dovuto rendicontare – evento mai accaduto in tutta la storia britannica – al parlamento inglese riguardo tutte le sue finanze. Per poche migliaia di sterline, figura in quell’elenco malsano in cui è iscritto anche Sigmundur Gunnlaugsson, l’ex primo ministro di quell’isola – l’Islanda – che solo pochi anni fa aveva alzato la testa con un referendum che l’aveva vista emanciparsi dal debito con le banche internazionali. Soprattutto inglesi. Ma le ripercussioni dello scandalo non si fermano a Reykjavík e stanno investendo la politica europea anche a Londra e Parigi. Senza dimenticare Berlino, alle prese con ventotto banche che avrebbero utilizzato i servizi dello studio panamense creato nel 1977 proprio da un tedesco, Jürgen Mossack, figlio di un membro delle SS. Sorpresa amara anche per la Fifa che credeva di essersi messa alle spalle la bufera dell’era Blatter. Nei file si trova il nome del neo presidente Gianni Infantino, eletto dopo lo scandalo delle mazzette. Il Guardian ha svelato che tra il 2003 e il 2006, quando era direttore degli affari legali della Uefa, Infantino avrebbe firmato contratti per la cessione dei diritti tv insieme a società offshore riconducibili a Hugo Jinkins, secondo gli inquirenti Usa una delle persone coinvolte nell’inchiesta per corruzione.
Dal canto suo, Il governo di Panama ha difeso gli “alti standard di trasparenza” del sistema finanziario nazionale affermando che a Panama sono stati approvati e applicati “strumenti legali molto più restrittivi e rigorosi che in altri centri di servizi finanziari a livello internazionale”.